La poesia del beà .
Il tramonto ci invitava verso casa. La nonna raggruppava parte del raccolto e quello che non stava sulla carriola del nonno finiva in due canestri. Erano i regali quotidiani del Prau [nel territorio di Camporosso (IM)]. Un fascio profumato di erbe e scarti di verdure dell’orto, che finiva in un telo. Fatto con due sacchi cuciti insieme con quattro lacci ai lati, si chiamava “lensurunâ€, un lenzuolo povero e disprezzato. Conteneva la cena per conigli e galline.
Poi la nonna, con un fazzoletto dai colori di un prato sbiadito, fazzoletto che girava attorno alle mani, costruiva un piccolo cerchio, simile ad un nido che finiva sulla sua testa. Serviva da ammortizzatore al peso di quello che sembrava un grande ombrello rovesciato. Quando era ben posizionato sul suo capo, il nonno caricava il “lensurun.†La nonna con i due canestri, uno per mano per l’equilibrio, sembrava un‘acrobata. Il percorso non era facile: occorreva superare il bedale rialzato. Ad un lato del sentiero scendeva veloce alle fasce sottostanti un’acqua trasparente. Le gambe strofinavano, salendo, menta acquatica e nepeta, che esalavano i profumi della fine del giorno. A noi nulla davano da portare, sapendo che avremmo perduto il carico per strada, mentre raccoglievamo piccoli maggiolini verde-blu. Insetti dal colore delle opali, piccoli gioielli. Povera nonna carica come un somaro, che giunta a casa doveva ancora lavare, tagliare, cuocere la fatica dell’orto! Quanti soli di tarassaco, violette, selene, abbiamo reciso, noi bambine per farle naufragare nel nostro mare. Un rigagnolo nel verde, percorso dall’acqua a giorni prestabiliti. Quanti concerti con improvvisati flauti di germogli di canne riempivano i pomeriggi!
La nostra merenda vicino ad una baracca di canne era un banchetto. Per il nonno e per noi aveva il sapore di una liturgia. Mentre l’acqua scivolava nei solchi e abbeverava tutte le verdure si poteva fare una sosta. Sempre con un occhio vigile all’acqua che facesse il giro giusto. Non dimenticando nessuno degli assetati. Estraeva il suo coltellino a scatto, quello per fare gli innesti con la punta curva. Lo puliva sulle braghe di fustagno e tagliava i pomodori da mettere sul pane. Una fiaschetta di olio, il sale estratto da un fazzoletto, che aveva visto tempi migliori, e poi l’operazione magica che riduceva il cetriolo in quattro perfette strisce, lasciando i semi intatti. Ne ricordo il colore, il gusto ed il rumore sotto i denti. Continuo a tagliare ancora il cetriolo in quattro per vedere luccicare i semi, per ricordare quei momenti magici.
Questi i ricordi di noi bambine, quando in estate, libere dalla scuola, seguivamo i nonni nel loro grande orto. Percorrevamo una strada dai bordi fioriti, che seguiva prati a fieno e campagne curate come le stanze di casa. Tutto serviva alla sopravvivenza. Libere di correre e giocare, ma guai a rovinare i canaletti o “surchi“, strade che il nonno tracciava all’acqua: le piante dovevano bere tutte! Quella terra non lontana dal torrente era di consistenza sabbiosa. Un passo falso e quello sbarramento disegnato con cura dal nonno crollava. Seguivano le terribili minacce di cacciata dall’eden.
di Gridellino