Storia minuta

adrianomaini

Intervista con Atropo – di WisÅ‚awa Szymborska

La signora Atropo? Esatto sono io.

Delle tre figlie della necessità Lei è quella con la fama peggiore.

Grossa esagerazione, poetessa mia. Cloto tesse il filo della vita, ma quel filo è sottile, non è difficile tagliarlo. Lachesi con la pertica ne fissa la lunghezza. Non sono innocentine.

Però le forbici sono in mano sua.

Giacché lo sono ne faccio uso.

Vedo che anche ora, mentre conversiamo...

Solo lavoro dipendente, questa è la mia natura.

Non si sente annoiata, stanca, assonnata quanto meno di notte? No, davvero no? Senza ferie, weekend, feste comandate o almeno brevi pause per una sigaretta?

Ci sarebbero arretrati, e questo non mi piace.

Uno zelo inconcepibile. Senza mai qualche riconoscimento, Premi, menzioni, coppe, medaglie? Magari diplomi incorniciati?

Come dal barbiere? No, grazie.

Qualcuno l’aiuta? E se sì, chi?

Un paradosso niente male – appunto voi, mortali. Svariati dittatori, numerosi fanatici. Benché non sia io a costringerli. Per loro conto si danno da fare. Rallegrarmi? È un sentimento sconosciuto. Non sono io che invito a farle, Non sono io che ne guido il corso. Ma lo ammetto: è grazie a loro soprattutto Che posso stare al passo.

Non le dispiace per i fili tagliati troppo corti?

Più corti, meno corti. Solo per voi fa la differenza.

E se uno più forte volesse sbarazzarsi di lei, e provasse a mandarla in pensione?

Non ho capito. Sia più chiara.

Riformulo la domanda: Lei ha un superiore?

... Passiamo alla domanda successiva.

Non ne ho altre.

In tal caso addio. O per essere più esatti...

Lo so, lo so. Arrivederci.

Wisława Szymborska

L’etnocentrismo critico di Ernesto De Martino

Come tanti altri scrittori e intellettuali della sua generazione, Ernesto De Martino (nato a Napoli nel 1908 e morto a Roma il 9 maggio 1965), aveva aderito da giovane alle iniziative che in campo culturale il fascismo andava proponendo o imponendo per moltiplicare sostegni alla sua azione ‘pedagogica’. Ben presto passato dalle file del GUF (Gioventù universitaria fascista) e dalla redazione de “L’Universale” alla conoscenza delle opere di Benedetto Croce, De Martino maturò con la guerra la sua definitiva vocazione e la sua svolta ideologica. Ne Il mondo magico, pubblicato da Einaudi nel 1948, c’è già tutto il De Martino che si rivelerà nel campo degli studi storico-religiosi ed etno-psicologici. Giunge poi propizia la lettura del Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi e dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci, quando già il Nostro è diventato un intellettuale militante ed è stato chiamato in Puglia a dirigere la segreteria della federazione socialista, prima del suo passaggio decisivo in casa comunista.

È l’epoca delle lotte contadine, della Riforma agraria, dell’inizio di una straordinaria stagione di indagini (ma De Martino le chiama spedizioni) incentrate sulle plebi del Mezzogiorno. Egli arriva nel Sud più profondo armato di un’équipe formata da medici, psichiatri, psicologi, storici delle religioni, antropologi, etnomusicologi, documentaristi cinematografici e fotografici (i più assidui furono Arturo Zavattini, figlio del famoso Cesare, Franco Pinna e Ando Gilardi). È l’inizio di una ricerca multidisciplinare mirata a studiare direttamente, con interviste, colloqui e registrazioni audio e video, ciò che rappresenta l’Altro, l’Alieno: ne indaga lo spessore antropologico, ne intuisce e ne ricava una ‘lezione’ politica, finisce per definire quella realtà come l’espressione della ‘crisi della presenza’. Tipico, al riguardo, è il racconto dell’episodio del contadino calabrese di Marcellinara, che allontanatosi con un automezzo dal suo paese e non vedendone più il campanile, fu colto da sintomi d’angoscia. La perdita degli antichi spazi geografici si risolveva in crisi della propria integrità.

Negli anni ’50 partì per numerose spedizioni in Puglia, Lucania e Calabria. Famose le sue “Note di campo”, le sue annotazioni su ogni più piccola manifestazione di quella cultura arcaica incontrata tra le vie e i bassi di Pisticci, San Fele, Tricarico, Copertino, Nardò, Galatina. Fu così che, sorprendentemente, si rivelò al mondo la diversità di un universo coi suoi riti e i suoi simboli, la persistenza dell’alieno e dell’esotico sul confine di civiltà coesistenti e concorrenti. E fu, insieme, la scoperta di come il potere dello Stato e della Chiesa fosse stato capace di condizionare per secoli una massa di esclusi e di subalterni. Gramsci e Marx e prima di loro, Malinowski e Lévy-Strauss, diedero una mano a Heidegger per aprire il varco ad una comprensione più piena del rapporto che s’instaura tra ricercatore, dotato del privilegio della cultura borghese, e componente di una plebe immersa in una dimensione ancestrale.

Con i suoi grandi libri – Sud e magia, Morte e pianto rituale, La terra del rimorso – De Martino riavvicinò due Italie divise e bisognose di comprendersi, di rispettarsi, di superarsi in un nuovo orizzonte culturale, definito in modo originale come ‘etnocentrismo critico’.

“Questo è da intendersi – scrive Vittorio Lanternari – come sforzo supremo di allargamento della propria coscienza culturale di fronte ad ogni cultura ‘altra’, e come sofferto processo di presa di coscienza critica dei limiti della propria storia culturale, sociale, politica”.

Un umanesimo, in sintesi, che sfocia in un mondo liberato dai suoi preconcetti e però attento a preservare ‘un villaggio vivente nella memoria’, a non dimenticarsi del suo passato, a guardare più fiducioso ad un futuro costruttivo.

di Sergio D’Amaro in Reti Dedalus (http://www.retididedalus.it/)

BOX: L’eredità culturale e scientifica lasciata da Ernesto De Martino (1908-1965) è di capitale importanza per gli studi etnoantropologici. Fondatore della scuola antropologica dell’Università di Cagliari (da cui provengono studiosi del calibro di Alberto M. Cirese, Clara Gallini, Pietro Clemente e Giulio Angioni), De Martino ha pubblicato opere che oggi sono dei veri e propri classici: Morte e pianto rituale nel mondo antico (Einaudi, 1958; n. ed. Bollati Boringhieri, 2000), Sud e magia (Feltrinelli, 1959; n. ed. 2002), La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud (Il Saggiatore, 1961, ristampata continuamente), Furore, simbolo, valore (ivi, 1962; poi Feltrinelli, Milano, 1980 e ivi 2002).

Il partigiano “Rensu u Longu”

La mia storia nella Resistenza è legata a filo doppio con Renzo Rossi. Nell’agosto del 1944 mi aggregai al gruppo partigiano di Girò (n.d.r.: Pietro Gerolamo Marcenaro di Vallecrosia (IM), detto anche Gireu), che operava nella zona di Negi (n.d.r.: molto più vicina a Seborga, é Frazione di Perinaldo). Dove godevamo anche dell’appoggio di Umberto Sequi a Vallebona e di Giuseppe Bisso a Seborga; tutti e due membri del CLN di Bordighera. Negi era il punto di contatto tra le varie formazioni partigiane che operavano nella zona, tra queste, quelle sotto il comando di Cekoff (n.d.r.:Mario Alborno di Bordighera) e di Gino (n.d.r.: Luigi Napolitano di Sanremo, poi, dal dicembre di quell'anno vice comandante della V^ Brigata d'Assalto Partigiana Garibaldi “Luigi Nuvoloni”). Facevo da staffetta tra Negi e Vallebona. A settembre 1944 insieme a Renzo Rossi partecipai all’incontro con Vittò (n.d.r.: Giuseppe Vittorio Guglielmo, in quel momento comandante della V^ Brigata , da dicembre comandante della II^ Divisione Garibaldi “Felice Cascione”). Ci accompagnò Confino, maresciallo dei Carabinieri che aveva aderito alla Resistenza. Vittò investì formalmente Renzo Rossi del compito di organizzare, per la nostra zona, il SIM (Servizio Informazioni Militare) e la SAP : io fui nominato suo agente e collaboratore. In novembre mi aggregai al battaglione di Gino Napolitano a Vignai, ma dopo alcune operazioni di collegamento tra Vallebona e il comando di Vignai, il comando mi richiamò ad operare nel Gruppo Sbarchi di Vallecrosia. Nell’estate 1944 i servizi segreti americani avevano inviato sulla costa una rete di informatori, capeggiati da Gino Punzi. Dovendo tornare in Francia, per attraversare le linee Gino Punzi si avvalse della collaborazione di un passeur, dal quale, poiché era passato al soldo dei tedeschi, durante il viaggio venne ucciso. Il comandante tedesco si infuriò perché avrebbe voluto catturare vivo il Gino. Sul suo cadavere furono rinvenuti dei documenti, dai quali i tedeschi vennero a conoscenza del fatto che sarebbero stati inviati altri agenti e telegrafisti alleati. I tedeschi predisposero una trappola e quando arrivò il telegrafista “Eros” lo catturarono ferendolo. Si avvalsero di lui per trasmettere falsi messaggi al comando alleato di Nizza. Con questi falsi messaggi fu richiesto l’invio di un’altra missione: la missione “Leo”. La missione andò a rotoli con il ferimento di “Leo”, che venne nascosto nella cantina di casa mia. I tedeschi rastrellarono tutta la zona cercando “Leo”; “visitarono” anche la mia casa: sulla porta rimasero le impronte dei chiodi degli scarponi di quando sfondarono l’ingresso a calci. Ma non cercarono in cantina, si limitarono ad arraffare del cibo dalla cucina. Con Renzo Rossi nascondemmo tutti i documenti del SIM e del CNL nel mio giardino, preparandoci al trasferimento di “Leo” in Francia. Il Gruppo Sbarchi Vallecrosia aveva frattanto predisposto una barca. Renzo Rossi con Lotti avevano preavvisato i bersaglieri della necessità di effettuare l’imbarco quanto prima possibile. La collaborazione dei bersaglieri fu determinante per tutte le operazioni del Gruppo Sbarchi. Il sergente Bertelli comandava un gruppo di bersaglieri a Collasgarba – sopra Nervia di Ventimiglia – e aveva manifestato la volontà di aderire alla Resistenza. Fu avvicinato dai fratelli Biancheri, detti Lilò, per stabilire le modalità della diserzione, quando il plotone fu distaccato alla difesa costiera giusto sulla costa di Vallecrosia in prossimità del bunker alla foce del Verbone. I Lilò convinsero allora i bersaglieri a non disertare, ma ad operare dall’interno per consentire ed agevolare le nostre operazioni. Alla data convenuta, in pieno giorno trasferimmo “Leo” a Vallecrosia, facendolo sedere sulla canna della bicicletta di Renzo. In pieno giorno, perché approfittammo di un furioso bombardamento. Le strade erano deserte, solo granate che esplodevano da tutte le parti. Ricoverammo “Leo” in casa di Achille (n.d.r.: Achille Lamberti di Vallecrosia, “Andrea”), aspettando la notte. Al momento opportuno ci trasferimmo sul lungomare; il soldato tedesco di guardia, come al solito, era stato addormentato da Achille con del sonnifero fornito dal dr. Marchesi (del CLN di Bordighera e con varie responsabilità in seno alla Resistenza), laureato in chimica. I bersaglieri ci aiutarono a mettere in acqua la barca e a caricare “Leo” ferito. Cominciammo a remare, ma, dopo poche centinaia di metri, la barca cominciò ad imbarcare acqua. Non potevamo tornare indietro. Mentre io e “Rosina” (Luciano Mannini) remavamo, “Leo” e Renzo si misero di buona lena a gottare, con una sassola che, per puro caso, avevamo portato con noi. Riuscimmo a tenere il mare e ad arrivare al porto di Monaco. Con la pila facemmo i soliti segnali, ma non ricevemmo alcuna risposta; entrammo nel porto e accostammo alla banchina. Chiamammo una ronda di passaggio, che ci portò al comando di polizia, dove chiedemmo di informare Milou, l’agente di collegamento. Arrivarono gli inglesi e “Leo” fu finalmente ricoverato al Pasteur di Nizza. Anche io e “Rosina” ci facemmo medicare il palmo delle mani piagate dal remare. Il nostro ritorno fu programmato subito con il motoscafo di Giulio “Corsaro” Pedretti e di Cesar, con il quale si dovevano recuperare anche alcuni prigionieri alleati; ma il motoscafo in mare aperto andò in panne e non ne volle sapere di riavviarsi. Eravamo in balia delle onde: Renzo Rossi, Pedretti e Cesar sotto un telo, al chiarore di una lampada, rabberciarono alla meglio il motore. Quasi albeggiava e la missione fu annullata perché ormai troppo tardi. Sulla spiaggia di Vallecrosia il Gruppo Sbarchi attese invano con i 5 piloti. I piloti vennero trasferiti in Francia nei giorni successivi da Girò e Achille. Io, Renzo Rossi, Achille Lamberti e Girò ritornammo in un'altra occasione dalla Francia con un carico di armi. Per sbarcare dovemmo attendere il segnale dalla riva, ma, come altre volte, non arrivò alcun segnale. Sbarcammo proprio davanti alla postazione dei bersaglieri, vicino al bunker. Pochi giorni dopo, senza Achille, che rimase a dirigere il Gruppo a Vallecrosia, effettuai con Girò un’altra traversata, accompagnando “Plancia” (n.d.r.: Renato Dorgia) a prendere armi e materiale. Il ritorno lo effettuammo con la scorta di una vedetta francese, che accompagnò il motoscafo di Pedretti. Vi furono momenti di apprensione perché da bordo della vedetta si udì distintamente il rombo del motore di un motoscafo tedesco; i nemici non si accorsero della nostra presenza e passarono oltre. Trasbordammo sul motoscafo e sul canotto gli uomini e il materiale delle missioni “Bartali” e “Serpente”, composte da agenti addestrati al sabotaggio. Nelle operazioni di trasbordo alcuni caddero in mare e recuperarli nel buio non fu cosa facile, dovendosi osservare il silenzio assoluto. Attendemmo i segnali convenuti da riva. Anche quella volta nessun segnale. Gli ordini erano di annullare tutto, ma Girò accompagnò ugualmente a terra tutta la missione, mentre io tornai a bordo della vedetta, e nel buio pesto riuscì ad individuare il tratto di spiaggia dinanzi a casa sua. Le difese di quel tratto di costa erano così composte: un bunker alla foce del torrente Borghetto, uno nei pressi della foce del Verbone, un altro quasi alla foce del Nervia. Tra il bunker del Borghetto e quello del Verbone, era tutto un campo di mine, eccetto, giusto alla metà tra i due bunker, un passaggio largo meno di un metro, dalla battigia fino al rio Rattaconigli. Sbarcarono a Rattaconigli e superarono il campo minato attraverso quel sentiero. Quella sera dal bunker di Vallecrosia fino alla foce del Nervia era tutto un pullulare di tedeschi e fascisti. Ci aspettavano. La fortuna fu dalla nostra.

Renzo Biancheri, “Rensu u Longu”, in GRUPPO SBARCHI VALLECROSIA < ed. Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia – Comune di Vallecrosia (IM) – Provincia di Imperia – Associazione Culturale “Il Ponte” di Vallecrosia (IM) > di Giuseppe Mac Fiorucci

Da Zanzibar, un camporossino il 28 agosto 1888

ZANZIBAR, 28 agosto 1888

Amatissimi Genitori

Già stavo pensando che cosa ne sarà della mia famiglia; ma finalmente ricevetti notizzie che mi sollevarono il cuore. Non sapete miei cari genitori la gioia e contentezza ch’io nutro, quando ricevo notizzie da voi, e del paese sebenché siano pocche ; pare che si ripresentino d’avanti quell’anime ch’io lasciai alla casa paterna; e anche lontano lontano io sia da voi; il mio cuore e il pensiero è sempre da viccino, mi duole assai non poterci essere fra noi un più continuo scambio di notizzie motivo di cui è la lontananza che ci divide e perciò v’invio una presente credo che possa in certo modo darvi una prossima idea del paese di Zanzibar e suoi contorni. Zanzibar stato ancora indipendente è governato da un Pasciá comunemente chiamato Sultano; è compreso nella Zona Torrida ed in numero di latitudine Sud entrando in porto di notte e specialmente esse quando sono direste in un piccolo Parigi tanto che echeggia la luce in vari punti del paese, e sopratutto nel palazzo del Sultano; ma questa beltà vi rende ben tosto illusi allo spuntar dell’ Aurora in cui l’occhio in lungo d’aspetarvi quello che figuravi, gli si présenta din’anzi le tracce di un paese selvaggio ove la civiltà sta ancora sepolta. A pochi passi dal mare sorge nel mezzo di una piccola Piazza il palazzo Reale a 3 piani sporgenti ……… e terrazze e sorrette da colonne sovraposte l’una dall’altra. Dinanzi al medesimo si eleva un ‘altra torre la quale compie gli uffici di orologgi publici e di semaforo. Semaforo s’intende un punto in cui rende avviso anticipato di provenienze di bastimenti. A destra e a sinistra è circondato da case che man mano che si allontanano dal palazzo del Sultano, si fanno sempre più rozze, finché terminano di ampie Capanne ricoperte di foglie di palme. Le strade strettissime e piene d’ogni mondizia e salano un puzzo talmente nauseante da subito rendervi nausea la discesa a terra. Nessun negozio è alquanto Cristiano se nonché due o tre piccole betole apartenenti ai Turchi sono i mezzi di passatem- po di alcune ore. Alla sinistra del palazzo del Sultano sono messe in comunicazione per mezzo di anditi altre case più piccole di proprietà del medesimo in cui trovarsi rinchiuse una gran quantità di giovanette a disposizione del Sultano e queste case sono chiamate Serraglio. Nessun può avere comunicazione colle donne del Serraglio, ad eccezione della servitù ivi destinata; ritenuto che esso è considerato come un tempio di schiave, o un vero monastero di Monache. Davanti a queste case per un lungo spazzio di terreno è costruito un giardino fiancheggiato dalla parte del mare da un vapore materiale, e dalle cui parti laterali sorgono moltissime fontane. Molte gabbie di ferro contenute da varie razze D’animaliers ferroci fanno seguito al giardino, ed in vicinanza al mare. Queste sono le uniche bellezze di Zanzibar, il resto vastissime pianure e verdeggianti abitate d’infinità di bestie ferroci. Di ogni speccie di frutta è abbondantissima fra i quali è da notarsi, gli Ananas, Dateri, Banane, Cacchi, Aranci ecc ed altri infiniti squisiti son il loro sapore. Zanzibar è atraversato in lontananza da un fiume il nome non lo so; pieno di Cocodrilli e frequentato da Leoni, Tigri, Pantere Leopardi, Scimie ecc Il Venerdì giorno riconoscente dai Turchi, più che la Domenica dagli Europei, e si rapresenta d’inanzi una giornata di Carnavale. Al colpo di un cannone alle ore 4 Antemeridiane, è il segnale dell’alzata della loro Bandiera; a quell’ora in poi gran parte di gente nere, incomincia a percorere i vicoli seguiti da rintocchi di tamburi e da pifferi, finché cerca di riunirsi sulla piazza de Sultano. Poi l’esercito del Sultano schierato sul d’avanti del palazzo composti di circa un migliaio, senza l’aggiunta del popolo che attende con impazienza l’arrivo del loro Sovrano. É inutile descrivere le loro armi da fuoco, perché da voi medesimi potrete bene immaginarvi, notando però essere la grande abilità e divertimenti il maneggio di bastoni e delle frecce. Allo spuntar del Sultano è subito intonato da alcuni indigeni composti in una specie di fanfara, Le marce che dai medesimi vengono suonate sono molto lontane dalle nostre, ma che quantunque diaboliche, si sente un’agradevole piacere nelle varie specie di strumenti che noi altri non conosciamo. Quindi il Sultano seguito da alcuni Individui suoi Sudditi, Prende a passare in visita la trupa ; compiuta in pochi minuti la visita tra le acclamazioni e gli aplausi Rientrando in casa, pago della sua funzione per la sua riconoscenza della festa si fa entrare nel Serraglio. Scopo della visita al così detto monastero, è di togliervi dal medesimo una fra le quali più simpatiche; la quale viene condotta dalle madamigelle nelle sale del palazzo e resta a disposizione di lui finché giunga il venerdì seguente: viene ricondotta la scambiata come una simile e così di seguito. Le donne esistenti nel Serraglio ammontano per quando ho potuto sapere ad una Cinquantina. Durante il giorno continuano le feste con accompagnamenti di musica e pifferi nella piazza del Sultano e vanno consecutivamente perdendosi all’inoltrarsi della notte. Il clima considerato la posizione Geografica e la stagione in cui siamo, è da notarsi una gran parte depresione di temperatura nel percorso della notte, però il Caldo s’avvicina sensibilmente. Continuando a descrivervi non voglio trala- sciare di dirvi due parole intorno agli usi e Costumi degli abitanti. I ricchi distinguon- si dai poveri , perché questi ricoprono solo in parte le loro Carni nere con lunghe Camice e di tutti i colori. Mentre i ricchi alla grande diferenza della finezza degli Abiti, aggiungono ; non solo avere completamente la persona ricoperta, ma anche calzano una qualità di stivallini chiamati sandalie. Nessuna bellezza distinguesi sia negli uomini che nelle donne essi son tutti di colore nero, ed hanno i capeli nerissimi e ricciuti. Non tutte ma in gran parte le donne hanno il naso atraversato da un perno di metallo lucente terminante ad una estremità di anello e dall’altro in una piccola palla. Quantunque mi sia affaticato a domandarne spiegazzione non rimasi contento; ma però non ho ancora finito la mia descrizione, per ora mi arresto e vi spiegherò meglio il rimanente al ritorno Se iddio …….. Ricevetti il giorno 8 di agosto notizie di voi inviatemi il 27 giugno , ma già io aveva una mia lettera in cammino dandovi notizie del mio viaggio. Non credette miei cari genitori che la lontananza che passa tra le mie notizie sia per mia trascuratezza, ma è soltanto perché la posta non parte che una volta al mese, perché tutti i postali che partono da Zanzibar spedisco le mie notizie benché si paghino 75 cent.mi ogni lettera. Ora per quanto posso dirvi che la salutte sia di me del S. comandante non dico che sia perfettamente buona ma c’è la passiamo ancora discretamente. Il nostro ritorno non sappiamo quando sarà, può essere fin da domani ma non si sa. Tanti salutti alla famiglia dell’amico Cavaré a tutti i miei parenti ed Amici ed un bacio ed un abbraccio a tutta la famiglia e passo a dichiararmi il Vostro Amatissimo ed Obbed. mo Figlio GIO:BATTA UN bacio al nonno

Dall’Archivio di Silvana Maccario di Camporosso (IM)

P.S.

L’estensore della lettera, di cui qui sopra viene riprodotta la prima facciata ed alla quale, a parte errori di comprensione, non sono state apportate modifiche, fu Sebastiano Raimondo, vulgo Gio.Batta (di Agostino e Celestina Piombo), nato a Camporosso (IM) … e morto a Genova il 25 luglio 1959. I suoi fratelli furono: Rosa (nata nel 1855), Teresa (nata nel 1857), Paolina (nata nel 1858), Giovanna (nata nel 1862), Costanza (nata nel 1871), Carlo (1867-1940). E a questo link si può leggere l’esito di analoga operazione compiuta per una precedente lettera da Zanzibar di Sebastiano Raimondo.

L’Imelde del casello al km 12 della linea ferroviaria Savona Altare

L’Imelde abitava al casello al km 12 della linea Savona Altare. Vi abitava con suo fratello. Erano figli di un operaio venuto a costruire quella linea e poi assunto dalle FS negli anni 30.

Erano di Marzabotto. Mi diceva che i suoi parenti erano stati trucidati dai nazisti e che erano rimasti lì perché non avevano più parenti laggiù.

Era una donna silenziosa, timorosa; risaliva sulla sede ferroviaria i quasi due km che separavano i nostri due caselli e veniva a fare la spesa a Cadibona.

La prima volta che la vidi mi colpì quel suo fare dignitoso, quasi schivo: mi passò accanto ed io la salutai, lei si fermò e mi chiese se ero nuovo di lì; allora le raccontai a mio modo chi ero e da dove venivo. Le chiesi se viveva sola. Lei, stringendo la sua borsa della spesa, mi disse che viveva lì al casello con suo fratello. Mi sorrise l’Imelde e volle che l’andassi a trovare… cosa che feci nei giorni a venire. Non avevano acqua corrente né luce elettrica in casa; illuminava le stanze con il gas del carburo – allora se ne trovava in grande quantità –; fuori nel cortile avevano una pompa manuale per l’acqua con sottostante interrato serbatoio, con la quale riempivano i secchi. La casa era una grande cucina con un grande caminetto: si vedeva che la loro vita si svolgeva tutta lì in quella grande cucina.

Mi venne in mente che quello era sicuramente un retaggio di una cultura del mondo della mezz’aria e bracciantato, grandi cucine condivise e piccole stanze anguste per dormire.

Suo fratello mi guardò con attenzione – avevo 21 anni – volle sapere da dove venivo ed io fui prolifico di racconti ed aneddoti sulla mia terra… lui la domenica scendeva alla Società di Mutuo Soccorso a Montemoro. Credo che la loro vita si svolgesse tutta lì. E questo mi mise tristezza.

Seppi poi dopo della loro storia da un ferroviere, anche lui emiliano: erano persone buone e la barbara uccisione dei loro parenti li confinò per sempre al km 12 della linea Savona Altare…

L’Imelde morì prima del suo amato fratello e mi dispiacque non so se qualcuno si fosse ricordato di lei credo che in pochi le fecero visita… Imelde e suo fratello erano figli di un altro tempo ancora di un tempo che non lasciava molto spazio ai sentimenti. I loro volti erano quelli rassegnati di uomini e donne nati poveri nei primi anni del Novecento…

di Roberto Trutalli, Sindaco di Pigna (IM)

Giuseppe Balbo e la “I^ Mostra dei Pittori Americani in Europa” di Bordighera (IM)

Nel 1952 Giuseppe Balbo è il regista di una sorprendente iniziativa artistica che pone Bordighera (IM) al centro dell’attenzione internazionale, al pari di altre più importanti città italiane tradizionalmente note come centri promotori di cultura. La “I^ Mostra dei Pittori Americani in Europa” s’inserisce in un clima di intensi rapporti del nostro paese con gli Stati Uniti.

Scrive Walter Shaw nell’opuscolo di presentazione: “Nel prendere sotto i propri auspici questa prima esposizione dei pittori americani in Europa, la città di Bordighera raggiunge il più alto ideale di buona volontà e di fratellanza. Tale è il senso di questo reciproco gesto verso il popolo americano quale lo fu il Piano Marshall nei riguardi del popolo italiano. Tutti i pittori americani che lavorano in Europa sono stati invitati a presentare le loro opere davanti ad una giuria composta da pittori-artisti francesi, americani e italiani. Questa esposizione quindi può ben definirsi internazionale in scopi e sentimento. E’ un panorama che dimostra gli effetti che le diverse concezioni culturali europee passate e presenti hanno avuto nell’animo degli artisti americani“.

Balbo e con lui gli operatori culturali e gli enti pubblici che promuovono la manifestazione, investono sul binomio cultura-turismo che aveva qualificato la storia di Bordighera già nel tardo Ottocento. Credono che sia ancora attuale per far ripartire un’economia svilita dal recente conflitto mondiale e che possa fondare le future sorti della città.

E’ difficile trovare uno stile, un carattere che possa classificare la Mostra e potremmo meglio definirla un riflesso delle più disparate esperienze artistiche e d’avanguardia; riassunto che d’altronde è il risultato più logico delle fonti ispirative cui fa capo questa pittura. Fonti che vanno dalle tendenze impressionistiche e postCezanne a quelle fauviste e picassiane, da un astrattismo piuttosto formale ad un realismo con carattere intimista e talvolta anche primitivamente ingenuo e personalistico. Non siamo dinanzi ad arte americana nè di tradizione americana è il caso di parlare … Ognuno di questi pittori si è rivolto al maestro, per non dire all’esemplare…“ G.C. Ghiglione 5 giugno 1952 Il Secolo XIX.

Nonostante la tiepida reazione dei critici va considerata una importante caratteristica di questa esposizione: l’istituzione di premi d’acquisto da assegnare mediante una giuria. Il Comune di Bordighera ha quindi la possibilità di acquistare le migliori opere esposte iniziando così la costituzione di una Galleria d’Arte Contemporanea, primo passo per un Centro internazionale d’arte e di cultura.

p.g.c. dal sito Giuseppe Balbo (www.giuseppebalbo.it)

La malaria nel Ponente Ligure del Settecento

L’impaludamento dei porti canale sul Nervia e sul Roia, il proliferare di canneti selvatici, come nell’area di Bordighera (IM), ma anche alle foci di Nervia e Roia – specie nel sito dei “Paschei”, area dell’attuale casa comunale di Ventimiglia (IM) –, l’ignoranza delle tecniche romane sulle arginature di acque fluviali avevano determinato, già a partire dall’Alto Medio Evo, la riproduzione della zanzara anofele nell’estremo ponente dell’attuale provincia di Imperia.

Sia la malaria maligna (terzana continua) che la benigna (duplicis o triplicis) vennero citate fra le cause di morte, anche se a volte si alluse solo ad “inspiegabili febbri”: le comunità non furono tuttavia molto spaventate da questo pericolo, anche se le norme pubbliche ribadivano l’utilità di canalizzare le acque e prosciugare i luoghi paludosi.

In merito a ciò può esser utile citare una Lettera di Ser Teofrasto Mastigoforo a Filippo Buttari da Osimo scritta nell’anno 1744, in cui si legge a giudizio dell’areale intemelio (quello qui preso in esame): “l’aria è pestilenziale, e non può esser di più. Se è non mi crede, vada a guardar solo in viso i grami abitatori, e si chiarirà nel suo dubbio che lo fa manifesto il lor colore che pare cera gialla di candele” quindi “è giuocoforza di soggiornare in Villa per isfuggire l’aria nocivissima e pestilenziale di Ventimiglia”.

Tale considerazione induce a valutare una lettera, scoperta e studiata da Antonio Martino di Savona, del notaio originario di Sassello (SV) Gio.Batta Gavotti, operante nel 1750 la sua attività a Ventimiglia (ufficio nel quartiere dell’Oliveto), quindi a Bussana e a Taggia (ufficio nel quartiere Pantano); l’8 novembre 1750 morì sua moglie ed egli annotò: “è passata da questa all’altra vita la detta mia consorte con aver prima sofferta una malattia cronica dalla metà circa d’agosto fino al giorno della sua morte ed il di lei cadavere si è sepellito nella chiesa de RR.PP. della Annunziata fuori di Ventimiglia. Fin dalli primi giorni di sua malattia che si trovò con grave pericolo fece atti dal Not. Simone Maria Muraglia nel luogo di Bordighera, dove si trovammo a caso di cambiare aria, nel quale fece legato a mio favore delle lire 300”.

Interpretando l’espressione “cambiare aria”, il Martino pensò proprio ad una forma di malaria (altresì connessa al fatto che pure tutti i figli del notaio, che videro la luce in Ventimiglia, morirono in età infantile).

Il ferimento del comandante partigiano “Leo”

Nell’agosto del 1944 gli alleati sbarcarono a St. Raphael vicino a Marsiglia. A sbarco consolidato, l’avanzata alleata si divise su due direttrici, la prima verso Marsiglia, composta principalmente dall’Armée d’Afrique francese; la seconda verso la Costa Azzurra e il confine italiano. Sulla riva destra del Var, prima di entrare in Nizza, l’avanzata si arrestò non per opposizione delle forze tedesche ma per scelta del comando alleato. La resistenza francese della Costa Azzurra insorse spontaneamente, quasi costringendo gli alleati a liberare Nizza e a proseguire fino a Mentone, che venne liberata ai primi di settembre 1944 riportando i confini all’anteguerra.

A Gattières, sopra Nizza, fu installata una scuola per l’addestramento di sabotatori, alla quale parteciparono diversi partigiani italiani; a Mentone vennero installate delle piccionaie di colombi viaggiatori che venivano impiegati nelle operazioni di spionaggio oltre le linee. Le “agenzie” di intelligence alleate (francesi, inglesi e americane) iniziarono a lavorare più in concorrenza fra loro che in collaborazione. Il nostro CLN assisteva con timore a queste azioni in “concorrenza”, perché mettevano in pericolo tutta l’organizzazione. … Il maresciallo Reiter fece accompagnare da due agenti in borghese la staffetta Irene (in questa versione dei fatti la persona, costretta dai nazisti a fare da esca per attirare in trappola i due partigiani) verso la casa di Vallecrosia, dove “Leo” e “Rosina”, ignari, aspettavano il ritorno di chi li aveva traditi. … “Leo” restò gravemente ferito. Ma anche i due agenti nemici versarono in fin di vita. “Leo” e “Rosina” fuggirono per vie diverse eludendo anche il successivo rastrellamento tedesco. “Leo” trovò rifugio nella clinica Moro sulla via Romana, dove venne medicato ma non ricoverato. Il partigiano Lotti, probabilmente avvisato da “Rosina”, o non so come, avvisò il nostro CLN di Bordighera che “un agente americano” era stato ferito e si trovava alla clinica Moro. Insieme a Renzo Biancheri “U Longu”, prelevammo “Leo” dalla Clinica Moro [n.d.r.: che era stata trasferita dal 2 gennaio 1944 a Villa Poggio Ponente di Vallecrosia] e lo portammo all’ospedale di Bordighera. Riuscimmo a ricoverarlo con un tragico stratagemma.

Per i ricoveri con ferita i medici dovevano dichiarare se la ferita era stata causata da scheggia di bomba o da colpo d’arma da fuoco. All’ospedale “Leo” venne curato da due medici che conoscevo bene, il dr. Giribaldi e il dr. Gabetti, e assistito dalla caposala, infermiera Eva Pasini. Il dr. Gabetti mi disse che difficilmente “Leo” sarebbe sopravvissuto e che quindi conveniva ricoverarlo come “ferito da colpo d’arma da fuoco” e non rischiare la vita quando la polizia fascista avesse preso conoscenza del referto. Così fu fatto: “Leo” fu ricoverato e gli vennero prestate le prime cure. ….

Renzo “Stienca” Rossi in GRUPPO SBARCHI VALLECROSIA < ed. Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia – Comune di Vallecrosia (IM) – Provincia di Imperia – Associazione Culturale “Il Ponte” di Vallecrosia (IM) > di Giuseppe Mac Fiorucci

Mantegazza, igienista ante-litteram

Paolo Mantegazza (Monza, 1831 – San Terenzo di Lerici [La Spezia], 1910) si laureò in Medicina e fu patologo, antropologo, igienista, enciclopedista e politico. Straordinariamente avido di conoscenza e assolutamente ispirato ai dettami del positivismo, maturò la convinzione che il popolo dovesse usufruire delle recenti scoperte scientifiche.

Ciò lo rese attivo per quasi tutta la vita come autore di numerosi volumi a carattere divulgativo e letterario, oltreché di libri di viaggi.

Dopo la laurea intraprese un lungo viaggio in Europa e nel Sudamerica. Nel 1858 rientrò con la famiglia in patria e nel 1860 fu nominato Professore di Patologia all’Università di Pavia, dove si era laureato e dove fondò, primo in Europa, un laboratorio di patologia sperimentale.

Nel contesto della divulgazione fu un antesignano di temi abbastanza nuovi connessi alla Fisiologia ed alla riscoperta dell’essenzialità dell’Igiene. In particolare redasse e editò opere innovative collegate alla proposizione di salutari NORME IGIENICHE. Che dimensionò praticamente nell’organizzato sistema delle STRUTTURE POLIVALENTI PER I BAGNI MARINI, organizzate secondo il recupero dell’ancestrale idea nordica del KURSAAL (o SALA DELLE CURE), finalizzate al basilare assioma del vivere sano in tutti gli aspetti della vita domestica e lavorativa. Anche per il fatto che, pionieristicamente, affrontò il tema dell’educazione sessuale e del controllo delle nascite, vide condannare dalla Chiesa romana molte delle sue pubblicazioni, che vennero ascritte al pur sempre meno ascoltato Index Librorum prohibitorum.

Dal 1870 occupò la prima cattedra italiana di Antropologia a Firenze: qui creò la Società Italiana di Antropologia e un Museo antropologico-etnografico.

Nel 1865 venne eletto Deputato al novello Parlamento e nel 1876 Senatore. Anche come politico si impegnò in campo igienico-sanitario e oltre a far parte del Consiglio Superiore di Sanità collaborò a varie Accademie e Istituti Scientifici in Italia e all’Estero.

Il partigiano “Rensu u Longu”

La mia storia nella Resistenza è legata a filo doppio con Renzo Rossi. Nell’agosto del 1944 mi aggregai al gruppo partigiano di Girò (n.d.r.: Pietro Gerolamo Marcenaro di Vallecrosia (IM), detto anche Gireu), che operava nella zona di Negi (n.d.r.: molto più vicina a Seborga, é Frazione di Perinaldo). Dove godevamo anche dell’appoggio di Umberto Sequi a Vallebona e di Giuseppe Bisso a Seborga; tutti e due membri del CLN di Bordighera. Negi era il punto di contatto tra le varie formazioni partigiane che operavano nella zona, tra queste, quelle sotto il comando di Cekoff (n.d.r.:Mario Alborno di Bordighera) e di Gino (n.d.r.: Luigi Napolitano di Sanremo, poi, dal dicembre di quell'anno vice comandante della V^ Brigata d'Assalto Partigiana Garibaldi “Luigi Nuvoloni”). Facevo da staffetta tra Negi e Vallebona. A settembre 1944 insieme a Renzo Rossi partecipai all’incontro con Vittò (n.d.r.: Giuseppe Vittorio Guglielmo, in quel momento comandante della V^ Brigata , da dicembre comandante della II^ Divisione Garibaldi “Felice Cascione”). Ci accompagnò Confino, maresciallo dei Carabinieri che aveva aderito alla Resistenza. Vittò investì formalmente Renzo Rossi del compito di organizzare, per la nostra zona, il SIM (Servizio Informazioni Militare) e la SAP : io fui nominato suo agente e collaboratore. In novembre mi aggregai al battaglione di Gino Napolitano a Vignai, ma dopo alcune operazioni di collegamento tra Vallebona e il comando di Vignai, il comando mi richiamò ad operare nel Gruppo Sbarchi di Vallecrosia. Nell’estate 1944 i servizi segreti americani avevano inviato sulla costa una rete di informatori, capeggiati da Gino Punzi. Dovendo tornare in Francia, per attraversare le linee Gino Punzi si avvalse della collaborazione di un passeur, dal quale, poiché era passato al soldo dei tedeschi, durante il viaggio venne ucciso. Il comandante tedesco si infuriò perché avrebbe voluto catturare vivo il Gino. Sul suo cadavere furono rinvenuti dei documenti, dai quali i tedeschi vennero a conoscenza del fatto che sarebbero stati inviati altri agenti e telegrafisti alleati. I tedeschi predisposero una trappola e quando arrivò il telegrafista “Eros” lo catturarono ferendolo. Si avvalsero di lui per trasmettere falsi messaggi al comando alleato di Nizza. Con questi falsi messaggi fu richiesto l’invio di un’altra missione: la missione “Leo”. La missione andò a rotoli con il ferimento di “Leo”, che venne nascosto nella cantina di casa mia. I tedeschi rastrellarono tutta la zona cercando “Leo”; “visitarono” anche la mia casa: sulla porta rimasero le impronte dei chiodi degli scarponi di quando sfondarono l’ingresso a calci. Ma non cercarono in cantina, si limitarono ad arraffare del cibo dalla cucina. Con Renzo Rossi nascondemmo tutti i documenti del SIM e del CNL nel mio giardino, preparandoci al trasferimento di “Leo” in Francia. Il Gruppo Sbarchi Vallecrosia aveva frattanto predisposto una barca. Renzo Rossi con Lotti avevano preavvisato i bersaglieri della necessità di effettuare l’imbarco quanto prima possibile. La collaborazione dei bersaglieri fu determinante per tutte le operazioni del Gruppo Sbarchi. Il sergente Bertelli comandava un gruppo di bersaglieri a Collasgarba – sopra Nervia di Ventimiglia – e aveva manifestato la volontà di aderire alla Resistenza. Fu avvicinato dai fratelli Biancheri, detti Lilò, per stabilire le modalità della diserzione, quando il plotone fu distaccato alla difesa costiera giusto sulla costa di Vallecrosia in prossimità del bunker alla foce del Verbone. I Lilò convinsero allora i bersaglieri a non disertare, ma ad operare dall’interno per consentire ed agevolare le nostre operazioni. Alla data convenuta, in pieno giorno trasferimmo “Leo” a Vallecrosia, facendolo sedere sulla canna della bicicletta di Renzo. In pieno giorno, perché approfittammo di un furioso bombardamento. Le strade erano deserte, solo granate che esplodevano da tutte le parti. Ricoverammo “Leo” in casa di Achille (n.d.r.: Achille Lamberti di Vallecrosia, “Andrea”), aspettando la notte. Al momento opportuno ci trasferimmo sul lungomare; il soldato tedesco di guardia, come al solito, era stato addormentato da Achille con del sonnifero fornito dal dr. Marchesi (del CLN di Bordighera e con varie responsabilità in seno alla Resistenza), laureato in chimica. I bersaglieri ci aiutarono a mettere in acqua la barca e a caricare “Leo” ferito. Cominciammo a remare, ma, dopo poche centinaia di metri, la barca cominciò ad imbarcare acqua. Non potevamo tornare indietro. Mentre io e “Rosina” (Luciano Mannini) remavamo, “Leo” e Renzo si misero di buona lena a gottare, con una sassola che, per puro caso, avevamo portato con noi. Riuscimmo a tenere il mare e ad arrivare al porto di Monaco. Con la pila facemmo i soliti segnali, ma non ricevemmo alcuna risposta; entrammo nel porto e accostammo alla banchina. Chiamammo una ronda di passaggio, che ci portò al comando di polizia, dove chiedemmo di informare Milou, l’agente di collegamento. Arrivarono gli inglesi e “Leo” fu finalmente ricoverato al Pasteur di Nizza. Anche io e “Rosina” ci facemmo medicare il palmo delle mani piagate dal remare. Il nostro ritorno fu programmato subito con il motoscafo di Giulio “Corsaro” Pedretti e di Cesar, con il quale si dovevano recuperare anche alcuni prigionieri alleati; ma il motoscafo in mare aperto andò in panne e non ne volle sapere di riavviarsi. Eravamo in balia delle onde: Renzo Rossi, Pedretti e Cesar sotto un telo, al chiarore di una lampada, rabberciarono alla meglio il motore. Quasi albeggiava e la missione fu annullata perché ormai troppo tardi. Sulla spiaggia di Vallecrosia il Gruppo Sbarchi attese invano con i 5 piloti. I piloti vennero trasferiti in Francia nei giorni successivi da Girò e Achille. Io, Renzo Rossi, Achille Lamberti e Girò ritornammo in un'altra occasione dalla Francia con un carico di armi. Per sbarcare dovemmo attendere il segnale dalla riva, ma, come altre volte, non arrivò alcun segnale. Sbarcammo proprio davanti alla postazione dei bersaglieri, vicino al bunker. Pochi giorni dopo, senza Achille, che rimase a dirigere il Gruppo a Vallecrosia, effettuai con Girò un’altra traversata, accompagnando “Plancia” (n.d.r.: Renato Dorgia) a prendere armi e materiale. Il ritorno lo effettuammo con la scorta di una vedetta francese, che accompagnò il motoscafo di Pedretti. Vi furono momenti di apprensione perché da bordo della vedetta si udì distintamente il rombo del motore di un motoscafo tedesco; i nemici non si accorsero della nostra presenza e passarono oltre. Trasbordammo sul motoscafo e sul canotto gli uomini e il materiale delle missioni “Bartali” e “Serpente”, composte da agenti addestrati al sabotaggio. Nelle operazioni di trasbordo alcuni caddero in mare e recuperarli nel buio non fu cosa facile, dovendosi osservare il silenzio assoluto. Attendemmo i segnali convenuti da riva. Anche quella volta nessun segnale. Gli ordini erano di annullare tutto, ma Girò accompagnò ugualmente a terra tutta la missione, mentre io tornai a bordo della vedetta, e nel buio pesto riuscì ad individuare il tratto di spiaggia dinanzi a casa sua. Le difese di quel tratto di costa erano così composte: un bunker alla foce del torrente Borghetto, uno nei pressi della foce del Verbone, un altro quasi alla foce del Nervia. Tra il bunker del Borghetto e quello del Verbone, era tutto un campo di mine, eccetto, giusto alla metà tra i due bunker, un passaggio largo meno di un metro, dalla battigia fino al rio Rattaconigli. Sbarcarono a Rattaconigli e superarono il campo minato attraverso quel sentiero. Quella sera dal bunker di Vallecrosia fino alla foce del Nervia era tutto un pullulare di tedeschi e fascisti. Ci aspettavano. La fortuna fu dalla nostra.

Renzo Biancheri, “Rensu u Longu”, in GRUPPO SBARCHI VALLECROSIA < ed. Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia – Comune di Vallecrosia (IM) – Provincia di Imperia – Associazione Culturale “Il Ponte” di Vallecrosia (IM) > di Giuseppe Mac Fiorucci