Storia minuta

adrianomaini

Virgilio Mago e poeta

Storia e leggenda avvolgono la vita di Publio Virgilio Marone a Napoli, il poeta latino che tra sacro e profano fu amato come Virgilio Mago dal popolo e dai notabili, da Posillipo fino al centro della città partenopea. Al Medioevo si fa risalire la credenza popolare di Virgilio stregone buono, più comunemente ritenuto uomo saggio, in grado di proteggere e aiutare la città con talismani, sortilegi e incantesimi avendo ereditato poteri dagli dei, per cui si pensa che nel XII secolo a Napoli fossero ancora vive credenze pagane. Egli frequentò a Napoli la scuola di Sirone, aderì poi al neopitagorismo, studiò quindi la natura e si avvicinò al culto di Cerere e Proserpina. Pare che poi fosse riuscito ad appropriarsi di un libro di negromanzia dalla tomba del filosofo Chironte , in una città sotterranea all’interno del monte Barbaro situata tra Baia e il lago d’Averno, addentrandosi nei misteri di vita e morte, riuscendo ad apprendere le scienze occulte, i rituali magici per effettuare guarigioni ed esorcizzare gli spiriti malvagi, difendere la città e provvedere ai suoi bisogni . Addirittura fece i primi esperimenti di magia a Roma per cui fu imprigionato per ordine dell’imperatore Augusto, ma con i compagni di ventura magicamente volò via su una barca che aveva disegnato sul muro esterno della prigione, giungendo in Puglia e proseguendo poi per Napoli. Da allora divenne un personaggio leggendario, caro all’ immaginario popolare che lo rese quasi immortale perché di fatto il ritrovamento o la traslazione dei suoi resti sono ancora incerti.

La storia di Virgilio Mago per certi aspetti s’ incrocia con il mito della sirena Parthenope, entrambi protagonisti delle “Leggende napoletane” di Matilde Serao. Napoli, o meglio, l’antica Neapolis fu voluta da Parthenope e nacque proprio dal suo amore per Cimone. Il corpo esanime della sirena si arenò a Megaride, una piccola isola a sé fino al IX sec. a. C. che poi fu collegata alla terraferma e divenne sede del Castel dell’ Ovo durante la dominazione normanna del XII secolo. Nei sotterranei del castello ci sono i ruderi della sfarzosa villa del patrizio romano Lucullo (Castrum Lucullarum) , ove soggiornò Virgilio dal 45 al 29 a.C. che in quella quieta bellezza trovò l’ispirazione per scrivere le Bucoliche e quattro libri delle Georgiche e sperimentare le sue arti magiche. “Dopo la poesia di Parthenope, semidia, creatrice, sorge la poesia di Virgilio, creatore, semidio. Noi conosciamo Virgilio, il grande maestro di Dante, ma conosciamo poco di Virgilio Mago….Noi siamo ingrati verso colui che esclama: Illo Virgilium me tempore dulcis alebat Parthenope…Egli era giovane, bello, alto della persona, eretto nel busto, ma camminava con la testa curva e mormorando certe sue frasi, in un linguaggio strano che niuno poteva comprendere. Egli abitava sulla sponda del mare dove s’incurva il colle di Posillipo, ma errava ogni giorno nelle campagne che menano a Baia ed a Cuma ; egli errava per le colline che circondano Parthenope, fissando, nella notte, le lucide stelle e parlando loro il suo singolare linguaggio; egli errava sulle sponde del mare, per la via Platamonia, tendendo l’orecchio all’armonia delle onde, quasi che elle dicessero a lui solo parole misteriose. Onde fu detto Mago e molti furono i miracoli della sua magia”.

Probabilmente egli entrò in contatto con gli eremiti e i monaci alchimisti, che vivevano a Megaride, e tra scienza e leggenda a lui si riconduce la storia medioevale dell’uovo che, deposto in una caraffa di vetro racchiusa a sua volta in una gabbietta, fu murato nelle fondamenta del castello che appunto prese il nome di “ castello dell’ Ovo” e dal quale dipendevano le sorti dell’isola e dell’intera città, che sarebbero andate in rovina se si fosse rotto. L’uovo era un simbolo noto agli alchimisti, ai filosofi, e soprattutto agli studiosi di esoterismo in quanto comprensivo di due forme perfette cioè del triangolo che rappresenta il divino e la vita, e del cerchio che la protegge. L’uovo cosmico crea, dà origine alla vita e non a caso ricorre anche nel mito di Parthenope e nella nascita di Pulcinella. Quando nel 1370 una violenta tormenta inondò le prigioni del castello ove era rinchiuso il condottiero Ambrogio Visconti che in quell’ occasione pensò di evadere rompendo la caraffa dell’uovo durante la sua precipitosa fuga nei sotterranei, franò proprio l’ala del castello ove era nascosto l’uovo e i generali timori dei napoletani si placarono solo quando la regina Giovanna ne fece ricollocare un altro onde evitare nuove sciagure alla città. Tanti altri furono i prodigi e le magie di Virgilio: la mosca d’oro , cui insufflò la vita per distruggere quelle che invasero la città, la guarigione dei cavalli di Augusto da un morbo sconosciuto, la scoperta di un’acqua miracolosa, la pietra magica che rese pescoso il mare di Napoli, la sanguisuga d’oro per bonificare i pozzi malsani, il cambio di direzione di un vento troppo caldo, l’invenzione di un alfabeto magico, la coltivazione di un giardino di piante medicinali ai piedi di Montevergine e sulla collina di Posillipo, l’uccisione del serpente che aveva divorato tanti bambini del Pendino, la costruzione dei bagni termali a Baia e della lunga galleria della Crypta Neapolitana, opera di leggendari demoni notturni che collegava Neapolis con i porti flegrei e divenne sede di rituali orgiastici.

Virgilio morì a Brindisi il 19 a. C e da sempre si crede che le sue spoglie siano nel colombario di età romana del parco Vergiliano, vicino alla Crypta neapolitana. Forse più probabilmente l’imperatore Augusto, protettore del poeta, gli fece erigere un monumento presso la villa di Vedio Pollione che poi fu distrutto dal mare. Per altre fonti i resti del poeta andarono persi nel Medioevo, secondo altre il re Roberto d’Angiò nel 1326 li fece traslare o murare nel castel dell’Ovo. Per il grammatico Elio Donato la tomba si trovava lungo la via Puteolana, che portava a Pozzuoli, a due miglia dalla città, per lo storico Julius Beloch invece sarebbe nel tempio dedicato al poeta nel boschetto della villa nella Riviera di Chiaia, per altri ancora le due miglia porterebbero verso il Vesuvio, esattamente a san Giovanni a Teduccio. Il culto di Virgilio nel mausoleo del Parco Vergiliano nell’area archeologica di Piedigrotta risale al Trecento. Visitata da personaggi illustri, letterati e potenti signori di ogni epoca storica, citata da Alessandro Dumas , che nel 1835 era a Napoli e dal suo albergo vedeva il sepolcro, e dal marchese De Sade che la visitò nel 1776, di fronte all’entrata pare ci fosse una lapide, posta dai padri lateranensi della vicina badia di Santa Maria di Piedi grotta nel 1554, con l’iscrizione che fuga ogni perplessità : “QUAE CINERIS TUMULO HOC VESTIGIA CONDITUR. OLIM ILLE HOC QUI.CECINIT PASCUA RURA DUCES… (Quali ceneri? Queste sono le vestigia del tumulo. Fu sepolto qui colui che cantò i pascoli, i campi, i condottieri”) e ne seguì un’altra “Che importa che il tumulo è crollato, che l’urna è rotta? Il nome stesso del poeta basterà a fare celebrare il luogo”. All’ interno del tempietto una stele di marmo posta da Eischoff, il bibliotecario della regina di Francia, recita l’epitaffio che Virgilio scrisse prima di morire perché fosse inciso sulla sua tomba:

“MANTUA ME GENUIT, CALABRI RAPUERE, TENET NUNC PARTHENOPE: CECINI PASCUA RURA DUCES (Mantova mi generò, la Calabria mi rapì, ora mi tiene Napoli: cantai i pascoli, le campagne gli eroi).

In effetti questo antico colombario romano è per tutti la tomba del poeta Virgilio, anche se si dubita della presenza delle sue ceneri; dubbio mai realmente accertato né fugato. Il mausoleo fu visitato dai grandi della letteratura quali Dante, Petrarca, Boccaccio e infine da Leopardi, ignaro che avrebbe riposato vicino a Virgilio.

Dapprima affascinato dalla bellezza mozzafiato dei luoghi e del mare, Leopardi divenne insofferente di quella città che suscitava contrastanti emozioni con le sue innumerevoli contraddizioni, da amare nella sua vitalità, da odiare nelle sue insidie e nell’ invadente e fastidiosa confusione. Nel 1934 fu eretto un imponente monumento al poeta di Recanati proprio nel parco di Piedigrotta, vicino alla galleria di Fuorigrotta e alla stazione di Mergellina, in un angolo nascosto e immerso nel verde che rivedo ancora in un’atmosfera quasi surreale di una calda e silenziosa mattina di agosto provando nuovamente una sorta di muto timore, rispetto reverenziale per quei due grandi della poesia, commossa soggezione di fronte ai loro mausolei e nel ricordo di alcuni versi, patrimonio universale e immortale. Che importa che il tumulo è crollato, che l’urna è rotta?

“Non vi è che un solo Virgilio: quello che la favolosa cronaca delinea nelle ombre della magia, è proprio il poeta. Invero egli non ha avuto che una magia sola: la grandiosa poesia del suo spirito. Nella cronaca è il poeta….È il poeta che cerca ed interroga ogni angolo oscuro della natura, è lui che parla alle stelle tremolanti di raggi nelle notti estive, è lui che ascolta il ritmo del mare, quasi fosse il metro per cui il suo verso scandisce… Virgilio mago è Virgilio poeta. E nulla si sa della sua morte. Come Parthenope, la donna, egli scompare. Il poeta non muore.” Del resto anche “ Parthenope non ha tomba, Parthenope non è morta. Ella vive, splendida, giovane e bella, da cinquemila anni. Ella corre ancora sui poggi, ella erra sulla spiaggia, ella si affaccia al vulcano, ella si smarrisce nelle vallate. È lei che rende la nostra città ebbra di luce e folle di colori: è lei che fa brillare le stelle nelle notti serene; è lei che rende irresistibile il profumo dell’arancio; è lei che fa fosforeggiare il mare… È lei che fa impazzire la città: è lei che la fa languire ed impallidire di amore: è lei la fa contorcere di passione nelle giornate violente dell’agosto. Parthenope, la vergine, la donna, non muore, non ha tomba, è immortale, è l’amore. Napoli è la città dell’amore.” (da “Leggende napoletane” di Matilde Serao)

Una città dall’ apparenza ora oziosa e solenne, ora sfacciata e volgare, da scoprire con diverse e contrastanti letture delle sue storie appassionate, vere e mitiche, dolci e tormentate, ironiche e drammatiche, vissute e interpretate, custodite nella memoria di altre generazioni, dimenticate da quelle più recenti. Storie sull’ origine e sulla fine, esorcizzate dalle credenze popolari, da una devozione superstiziosa, da rituali tramandati pigramente, come alibi poco convincenti ai quali poi si finisce col credere quasi per inerzia. Storie troppo straordinarie per essere credibili, unicamente napoletane.

di skikblog.it (http://www.skipblog.it/)

Purtevu ben, bela frema!

Antò e Terè sono due vicini che tutti i giorni litigano. Terè con tanto di testimoni porta in tribunale Antò perché le ha dato della “soma” che in mentonasco ma anche in ventemigliusu [dialetto di Ventimiglia (IM)] vuol dire somara ma soprattutto poco di buono. All’udienza parlano Antò, Terè, i testimoni e anche due buoni avvocati e fatto sta che il giudice condanna Antò ad una ammenda di quaranta soldi. Allora Antò ingoia amaro ma poi ha un colpo di genio e chiede spiegazioni – signor giudice io sono stato condannato perché ho dato della soma a una signora – e aggiunge – non mi condannereste mica se chiamassi signora una soma. Il giudice naturalmente conferma. Allora Antò si gira verso tanta Terè e rispettosamente, come se salutasse il Santissimo, le grida – Stia bene bella signora. (Alura, Antò Pessügh’ se revira verse tanta Terè a Tignuara, e respetuse, cuma se salütessa u Santissimu, y cria: – Purtevu ben, bela frema!).

Così, soddisfatto di aver dato della signora ad una somara, si avvia verso casa.

Questa storia scritta da Marcel Firpo, che ho tradotto all’ingrosso dal dialetto mentonasco, me la raccontava assieme ad altre storie mia nonna che l'aveva letta sulla mitica Barma Grande, il periodico dialettale degli anni Trenta che – adesso ho scoperto – era anche uno strumento di propaganda dell'irredentismo Ligure di ponente. Che il fascismo abbia finanziato le pubblicazioni in dialetto mentonasco oggi è una cosa abbastanza certa

Questo Marcel Firpo, che naturalmente in Francia chiamavano Firpò, era molto conosciuto dai due lati della frontiera. Del resto, la famiglia Firpo era originaria di Arenzano. Ma l’attività culturale, l’amore per le tradizioni, per la lingua e per la letteratura mentonasche di Marcello Firpo, si potevano anche considerare da parte francese, e forse lo erano, connivenza col nemico, collaborazionismo, lotta per l’autonomia e propaganda fascista. Per questo finita la guerra fu condannato dai francesi a 7 anni di reclusione, alla degradazione nazionale e alla confisca dei beni oltre alla sanzione di 400.000 vecchi franchi.

Dopo la liberazione in Francia fu istituito infatti il reato retroattivo di indegnità nazionale che comportava divieto di residenza, perdita dei diritti civili, confisca dei beni; pene molto dure a cui si pose rimedio con un’amnistia nel 1951. Un giorno mentre stavo raccogliendo informazioni e materiale per scrivere questa storia vado a Mentone ed entro in uno sgabuzzino che conosco, situato all’inizio della via Lunga dalla porta di Sant’Antonio, dove anziane volontarie, due volte alla settimana, vendono pubblicazioni vecchie e nuove su Mentone e dintorni.

Mi rifornisco e comincio a leggere.

In un libretto pubblicato pochi anni fa dalla società d’arte e storia del Mentonese, l'affare Firpo viene così presentato: “alla liberazione i mentonaschi rimproverarono a Firpo di aver fraternizzato con l’occupante italiano e nel 1945 deve lasciare Mentone (…) La Francia lo perdonerà solo dopo sette anni di esilio.”

di Arturo Viale di Ventimiglia (IM)

Prima che le pagine ingialliscano

E’ una medaglia simbolica quella che, scrivendo questo romanzo, ho voluto assegnare a “Vincé u Badin”, raccontando alcuni episodi della sua straordinaria vita.

Una storia, spesso buia e travagliata, che, pur avendo come fondo la guerra del 1915-18, non può essere considerata soltanto una storia di guerra. La guerra, quella più atroce, infatti, è sullo sfondo, mentre il racconto è piuttosto lontano dalle trincee e più vicino alla gente comune.

Prima di tutto debbo dire che Badin classe 1897 non era un eroe. Il primo a non essersi mai sentito tale è stato proprio lui. Molti fra coloro che mai avevano conosciuto la sua impresa, compiuta suo malgrado durante la Grande Guerra, lo hanno sempre considerato niente di più di un simpatico “ruba galline”, cui era facile addebitare qualsiasi malefatta fosse successa in paese. Non avendo lui stesso quasi mai parlato con nessuno della sua impresa, pochi sono stati quelli che ne sono venuti a conoscenza. Peccato, perché lui, forse più di tanti altri, una medaglia al valore l’avrebbe comunque meritata.

Badin era uno di quei tanti immigrati veneti, che dopo la fine della seconda guerra mondiale era approdato a Coldirodi [Frazione di Sanremo (IM)], come migliaia di altri, in prevalenza abruzzesi, ma anche tanti calabresi, piemontesi, siciliani ed appunto veneti, attirati dal lavoro nell’edilizia o nella floricoltura, attività che erano andate sempre più sviluppandosi in quegli anni. Come molti era approdato in Liguria portandosi dietro, stipate nel cervello, nostalgie di amori vissuti, di amori sognati, di amori finiti.

Avvicinandosi l’anniversario della fine della prima guerra mondiale, mi sono tornati alla mente tanti suoi racconti e più volte mi sono domandato se questi fossero attendibili. Se, insomma, “U Badin” fosse stato davvero il protagonista di una impresa per quei tempi assolutamente memorabile, oppure se fosse soltanto frutto della sua vivace fantasia.

Nessuno, forse, oggi si ricorda ancora di lui.

Recentemente, sfogliando una rivista stampata per ricordare gli abitanti di Coldirodi distintisi nel secolo scorso, mi sono imbattuto nel suo nome.

Ecco cosa ho trovato scritto: “… le Bigin, le Catì,… i Bacì e gli Antò,… persone semplici, simboli di un mondo che non c’è più ma che hanno vissuto la storia del nostro paese, attraverso miseria, guerra e fame, con dignità, generosità ed onestà. Da persone vere!……..

“Vincè u Badin “ era una di quelle: allampanato, solitario, taciturno, trascorreva i suoi giorni con frequenti trasferte in Francia, attraverso i boschi della frontiera, contrabbandando accendini, sigarette, cioccolata e talvolta anche tabacco. L’esiguità dei guadagni lo costringeva a dover arrotondare gli incassi “onesti”, svuotando qualche volta qualche pollaio. La consuetudine era tale, per cui ogni volta che un contadino avvertiva la mancanza anche di un solo bipede, la conclusione più comoda era sempre una sola: “E’ stato Badin!” Una volta però i derubati dovettero ricredersi . Badin era incolpevole in quanto aveva un alibi di ferro. Proprio in quei giorni, infatti, U Badin era ospitato nella prigione Santa Tecla di Sanremo.”

Nient’altro. Nessun accenno al suo passato militare. Neanche una parola.

Con il mio romanzo ho inteso raccontarne le vicissitudini, quasi a volerlo risarcire per tutte le amarezze, tutti i torti e tutte le ingiustizie subite, a mia volta affascinato dalla sua storia d’amore che altrimenti, come milioni di altre, sarebbe finita nell’oblio.

In cosa è consistita la sua impresa?

Badin, fra i quattro milioni di soldati italiani che si sono avvicendati al fronte durante la Grande Guerra, è stato quasi certamente uno dei primi cinque paracadutisti ad essere impiegato a livello pionieristico oltre le linee nemiche, senza peraltro che questo possa essere provato. Ma neppure smentito. Il suo nome, almeno nei documenti ufficiali, non compare mai. Come non fosse mai esistito: scomparso. Come mai, mi sono chiesto più volte? Le azioni militari in cui furono impiegati i primi incursori muniti di paracadute, risultano siano state cinque in tutto. Mentre i nomi dei protagonisti ufficialmente riconosciuti sono soltanto quattro. Qual è il nome del quinto? Per quale motivo il suo nome non compare mai ?.

Sono personalmente convinto che sia stato proprio Badin il soldato protagonista del mio libro. Coincidono troppe cose. Troppe verità non sono mai potute venire alla luce. Ma d’altronde come avrebbe Badin potuto conoscere certi particolari senza avervi partecipato?

Badin scanzonato e poco incline ad autocelebrarsi soleva dire . “ …ma ci pensate ragazzi…Se invece di atterrare dolcemente ci avessi lasciato le palle, sarei diventato famoso come Francesco Baracca o Enrico Toti….

Questo è il Vincenzo “ U Badin” che ho voluto raccontare in questo libro.

La sua prima giovinezza, l’impresa militare, i suoi contrastati amori: il tutto senza alcuna retorica. La storia, insomma, di un piccolo soldato nella Grande Guerra.

di Dantilio Bruno di Sanremo (IM), “Prima che le pagine ingialliscano”

Fragola Doria e Spartaco

… riporto una storia di Resistenza partigiana raccontata nel libro “Con la resistenza nel cuore” di Vittorio Mazzone.

È la storia di un giovane napoletano, Armando Izzo, nato ad Afragola (Na) il 12 giugno 1916. Fece studi classici per poi laurearsi in Giurisprudenza in un clima di esaltazione acritica del regime fin quando fu chiamato alle armi il 6 giugno 1941 e ben presto iniziò a rendersi conto delle chiacchiere di Mussolini “Chiedemmo che significava 1891 e ci spiegarono che era il suo anno di nascita. Incredibile! Eravamo scesi in guerra con un fucile vecchio di cinquant’anni mentre tutti gli altri eserciti già avevano moderni fucili a raffica o a ripetizione”. Capì che la disciplina, il linguaggio e il comportamento degli ufficiali e sottoufficiali si ispiravano al più bieco autoritarismo : “Allora capimmo che c’era un filo ideale che congiungeva il fascismo con l’insegnamento militare: non pensare, eseguire solo gli ordini e fu la rivolta delle coscienze!…. Il fascismo si preoccupò che questa massa di giovani diplomati e laureati lasciata a casa potesse prendere coscienza della situazione del paese per la politica del regime non condividendola. Per cui preferì ingabbiarli nei predetti battaglioni”. I giovani arruolati furono presto impegnati al fronte.

Izzo nel luglio 1941 divenne Caporale, dopo due mesi Sergente e poi entrò nella scuola degli Allievi Ufficiali di Salerno ove studiò con impegno la Topografia che gli servì in seguito come Comandante partigiano. Partecipò alla II Guerra mondiale nella zona di Mentone. Rischiò di essere mandato davanti a un plotone d’esecuzione perché il suo comportamento nei confronti dei soldati era considerato troppo aperto. A Gorbio ricevette l’incarico di Difensore d’ufficio presso il Tribunale militare di guerra della IV Armata che operava a Breil. Sebbene non avesse esperienza, s’impegnò a difendere i suoi assistiti e si rese conto che quei processi erano perlopiù farse per condannare a morte soldati italiani che rivendicavano la loro dignità di uomini e si ribellavano all’ottuso militarismo di tanti Ufficiali e Sottufficiali “Purtroppo capii che i soldati non avevano molti diritti da far valere. Il termine “insubordinazione” trovava largo spazio e commento nel codice penale militare Era un macigno che pesava sempre sullo stomaco dell’inferiore e che il superiore era sempre pronto a infierire sull’inferiore” . Quei soldati non erano affatto delinquenti o nemici della Patria, ma solo dei poveri cristi che per qualche banale errore erano caduti ingenuamente nelle grinfie di qualche superiore invasato, alla ricerca di qualcuno sul quale sfogare proprie frustrazioni; inoltre bastava poco per fare parte dei soggetti ritenuti pericolosi.

Quando fu annunciato l’Armistizio l’8 settembre 1943 il Sottotenente Izzo decise che doveva combattere contro i nazifascisti per liberare l’Italia , e tramite due esponenti della Resistenza francese, partì per l’Italia per raggiungere Cima Marta a 2200 mt di altitudine. Poi con un compaesano e altri ufficiali raggiunse Triora [(IM)] e si unì ai partigiani con il nome “Fragola ( da Afragola) Doria”. Divenne Comandante partigiano della V brigata d’Assalto Luigi Nuvoloni della I Zona Liguria, partecipò a numerose azioni contro i nazifascisti che operarono rastrellamenti, eccidi e devastazioni nell’entroterra ligure cui si opposero interi paesi grazie a donne di ogni età, agli uomini rimasti e a tanti giovani. Partecipò all’occupazione di Pigna a fine agosto 1944 e alla sua difesa nell’ottobre successivo. A dicembre prese il comando della V Brigata che tenne fino alla Liberazione, sostituendo il famoso Vittò, che passò a dirigere la II Divisione “Felice Cascione”. Armando Izzo ottenne la Medaglia d’Argento al Valor Militare. Il 1° maggio 1996 il Comune di Castelvittorio gli ha conferito la cittadinanza onoraria e la sua città natale, Afragola, con solenne cerimonia, il 26 giungo delle stesso anno gli ha consegnato la Medaglia d’Oro al merito della Resistenza.

Il libro con la Resistenza nel cuore” riporta pagine del memoriale di Fragola Doria che ricordano alcune delle pagine più tristi della storia dell’entroterra ligure, come l’eccidio di Gordale, e “Spartaco”, un diciottenne di Isolabona, che come altri giovanissimi aveva combattuto per la Liberazione dai nazifascisti.

“I Tedeschi paventavano uno sbarco alleato in Provenza, nella Francia meridionale, con ripercussioni lungo tutta la riviera fino a noi e quindi la decisione di sbaragliare per sentirsi sicuri nelle zone interessate. Essi intensificarono la difesa costiera. Tre forti colonne tedesche investirono la nostra zona: una, risalendo la Valle Argentina dopo avere distrutto Badalucco, salì fino a distruggere Molini di Triora. Altra colonna risalì la Valle Nervia, danneggiò Castelvittorio e per il passo di Carmo Langan scese per Molini e si congiunse con la prima colonna.

Una terza colonna (tedesca) scende dalla sinistra della valle per Corte e Andagna e da Molini sale a Triora. Tutto è distrutto. I Tedeschi battono il territorio del retroterra di Triora; nulla si salva. I vecchi castagni vengono battuti con il calcio del fucile, temendo che qualche partigiano potesse essere nascosto lì dentro. Ci furono due avvenimenti incredibili, di cui uno rasenta la pazzia. Stavamo sotto una roccia in quattro con Spartaco e altri due Garibaldini. Eravamo nella zona di Loreto; avanti a noi un sentiero sul quale passavano i Tedeschi alla nostra ricerca. Ci rendevamo conto della nostra situazione disperata. Spartaco mi dice: “Non voglio cadere vivo in mano ai tedeschi, non so gli altri due cosa pensano, tu sei un ufficiale, uccidimi con un colpo di pistola!” Era crollato! Gli dissi che se i Tedeschi ci scovavano, dovevamo cercarne di ucciderne ancora qualcuno prima che ci uccidessero. Gli altri due assentirono. Poi il diluvio. I Tedeschi si ritirarono di fronte all’infuriare della tempesta. Uscimmo dal nascondiglio con l’acqua a ruscelli che scendeva per i sentieri e la mulattiera.Il torrente Argentina era gonfio. Trascorse un minuto ed era come se fossimo in un mare in tempesta. Riparai in un casolare a Cetta. C’era una donna anziana, sola con una ragazza. Ci disse che stava sola e che la nipote aveva famiglia in Francia, con la quale non aveva più potuto comunicare. Appena qualche minuto e poi delle grida: “Arrivano i Tedeschi”. Afferro la giacca ed esco di corsa, ma non ritorno più in quel casolare. La storia è raccontata in “Storia della Resistenza di Imperia”. Spartaco fu bruciato vivo dai Tedeschi sopra Isolabona.” (da “Con la Resistenza nel cuore” di Vittorio Mazzone).

di Maria Cuccaro, skipblog.it

L’Imelde del casello al km 12 della linea ferroviaria Savona Altare

L’Imelde abitava al casello al km 12 della linea Savona Altare. Vi abitava con suo fratello. Erano figli di un operaio venuto a costruire quella linea e poi assunto dalle FS negli anni 30.

Erano di Marzabotto. Mi diceva che i suoi parenti erano stati trucidati dai nazisti e che erano rimasti lì perché non avevano più parenti laggiù.

Era una donna silenziosa, timorosa; risaliva sulla sede ferroviaria i quasi due km che separavano i nostri due caselli e veniva a fare la spesa a Cadibona.

La prima volta che la vidi mi colpì quel suo fare dignitoso, quasi schivo: mi passò accanto ed io la salutai, lei si fermò e mi chiese se ero nuovo di lì; allora le raccontai a mio modo chi ero e da dove venivo. Le chiesi se viveva sola. Lei, stringendo la sua borsa della spesa, mi disse che viveva lì al casello con suo fratello. Mi sorrise l’Imelde e volle che l’andassi a trovare… cosa che feci nei giorni a venire. Non avevano acqua corrente né luce elettrica in casa; illuminava le stanze con il gas del carburo – allora se ne trovava in grande quantità –; fuori nel cortile avevano una pompa manuale per l’acqua con sottostante interrato serbatoio, con la quale riempivano i secchi. La casa era una grande cucina con un grande caminetto: si vedeva che la loro vita si svolgeva tutta lì in quella grande cucina.

Mi venne in mente che quello era sicuramente un retaggio di una cultura del mondo della mezz’aria e bracciantato, grandi cucine condivise e piccole stanze anguste per dormire.

Suo fratello mi guardò con attenzione – avevo 21 anni – volle sapere da dove venivo ed io fui prolifico di racconti ed aneddoti sulla mia terra… lui la domenica scendeva alla Società di Mutuo Soccorso a Montemoro. Credo che la loro vita si svolgesse tutta lì. E questo mi mise tristezza.

Seppi poi dopo della loro storia da un ferroviere, anche lui emiliano: erano persone buone e la barbara uccisione dei loro parenti li confinò per sempre al km 12 della linea Savona Altare…

L’Imelde morì prima del suo amato fratello e mi dispiacque non so se qualcuno si fosse ricordato di lei credo che in pochi le fecero visita… Imelde e suo fratello erano figli di un altro tempo ancora di un tempo che non lasciava molto spazio ai sentimenti. I loro volti erano quelli rassegnati di uomini e donne nati poveri nei primi anni del Novecento…

di Roberto Trutalli, Sindaco di Pigna (IM)

I Bassi di ebrei ne hanno fatti sconfinare molti verso Francia

Con gli anni si dorme di meno e Pierin ne ha ottantasette e la sera da un po’ di tempo fa fatica a prendere sonno. E poi c’è quella scena che gli viene in mente tutte le sere. Sono a cena da Tornaghi [ristorante in Ventimiglia (IM)], il commissario Pavone è passato con la scusa di bere una volta; ha avvertito Marco Bassi che il giorno dopo passerà a prenderlo, arrestarlo, lui e suo padre Ettore. Li avvisa per dar loro l’ultima occasione per fuggire, in un certo senso sono tutti amici, compagni di ribotte.

I Bassi di ebrei ne hanno fatti sconfinare molti verso Francia e stavolta dovrebbero scappare loro [con il complesso delle leggi razziali del 1938 venne decretata anche l’espulsione di tutti gli ebrei stranieri residenti in Italia: molti di questi tentarono, spesso riuscendoci, la fuga clandestina verso la Francia attraverso la frontiera del ponente di Liguria; in proposito: Ombre al confine di Paolo Veziano L’espatrio clandestino degli Ebrei dalla Riviera dei Fiori alla Costa Azzurra 1938-1940, ed. Fusta, 2014].

Pierin ha capito al volo ed ha subito pensato alle valli di Cuneo, già in mano ai partigiani ed ai contrabbandieri, alla possibile salvezza a Caraglio, a Castelmagno dove conosce molti amici. E’ pronto col tassista Cavallotti per portarli via, padre e figlio. Anche Marco ha capito, ma il padre è già anziano e non vuole lasciarlo solo; la mamma l’hanno già sistemata con l’aiuto dei Notari alla clinica Moro, sulla via Romana. Sono lì e si guardano indecisi; Marco si toglie dal polso l’orologio d’oro di marca e lo offre in ricordo a Pierin che tentenna, vuole ancora convincerlo a scappare. Così l’orologio lo prende la Giretto che gestiva il negozio dei Bassi. Quell’orologio gli manca da più di sessant’anni e quel gesto è l’ultimo che gli viene in mente ogni sera prima di addormentarsi. E prendere sonno è sempre più difficile.

[Ettore e Marco Bassi furono deportati ad Auschwitz da dove non fecero più ritorno].

da ViteParallele di Arturo Viale di Ventimiglia (IM)

Non ci salveranno i melograni (incipit)

L’arrivo di Laura sull’isola non fu preceduto, come avviene di solito in viaggi di questo genere, da un lento avvicinamento a coste sconosciute, che iniziano a rivelarsi allo sguardo mostrando prima il profilo lontano, e poi via via particolari che le definiscono meglio: il loro delinearsi sull’orizzonte, il mutare dei confini tra la terra e il cielo, i fianchi, la vegetazione, qualche costruzione, e poi infine l’approdo. Niente di tutto questo, perché quell’ultima parte del viaggio si svolse nell’oscurità più profonda. Un viaggio cieco e senza possibilità di orientarsi nello spazio e nel tempo. Per un po’ ci fu solo silenzio e il rombo regolare del motore, poi all’improvviso quell’urlo, che le mise i brividi, simile al pianto di tanti bambini persi nella notte. Così alto che anche la barca sembrò azzittirsi. Così straniante che pensò di averlo soltanto immaginato, ma voltandosi verso i due ragazzi si accorse che anche loro lo avevano sentito, e lui esclamò ad alta voce, per coprire il rumore del motore e quello acuto che lacerava l’aria: “Eccole! Te l’avevo detto che da qui forse le avremmo sentite, le Diomedee!”. E allora Laura ritrovò nella memoria la leggenda dell’eroe greco, che di ritorno dalla guerra di Troia morì in qualche angolo di quel mare, e fu sepolto in una delle sue tante isole, mentre gli dei trasformarono i suoi compagni in uccelli marini messi lì a vegliare e piangere la sua sepoltura. Diomede e le sue Diomedee. ” Siamo stati fortunati, questo canto si sente in pochi posti qui nell’Adriatico…”. Laura non era sicura che si trattasse di fortuna: quel lamento non somigliava per nulla all’idea che lei aveva di cosa fosse un canto d’uccelli, persino le grida dei gabbiani le sembravano più armoniose e rassicuranti. Quello era un urlo di dolore, un pianto che non trova consolazione. Se fosse stata superstiziosa lo avrebbe interpretato come un presagio, ma non lo era; e poi presagio di cosa? Si strinse le braccia intorno al corpo per riscaldarsi: il golf della felpa di cotone era troppo leggero per viaggiare di notte in mare aperto. Dopo un tempo che non seppe calcolare all’improvviso comparvero delle luci davanti alla barca, e l’approdo di fronte all’hotel.

di Maristella Lippolis, Non ci salveranno i melograni, Ianieri Edizioni (2019)

Suor Juana Inés de la Cruz

Juana Inés de la Cruz, nata Juana Inés de Asbaje y Ramírez de Santillana (San Miguel Nepantla, 2 dicembre 1648 o, secondo altri, 12 novembre 1651 – Città del Messico, 17 aprile 1695), è stata una religiosa ed una famosa poetessa messicana. Figlia illeggittima di un nobile spagnolo e di una donna analfabeta, la quale è, però, in grado di dirigere una masseria e che nel 1655 vive con un altro uomo, Juana già a tre anni, con la complicità di una sorella maggiore e di una maestra, impara a leggere all’insaputa della madre. Vorrebbe tentare di proseguire gli studi, sino all’Università, travestita da ragazzo, cosa impossibile e molto pericolosa a quel tempo. La madre, ormai ben convinta della bontà delle aspirazioni della figlia, la manda dalla sorella a Città del Messico, dove la fornita biblioteca del defunto nonno svolge una funzione fondamentale nella preparazione di Juana. Risulta difficile, da qui in avanti, riassumere la sua pur breve vita, tanto ricca di avvenimenti importanti quanto é straordinaria la sua personalità, nella quale prevale un temerario, per l’epoca e l’ambiente, spirito libero. Sostanzialmente autodidatta, presentata nel 1664 alla nuova Corte dalla zia, entra nel gruppo delle dame della Viceregina, dove viene accreditata del titolo di “amatissima”. Compone versi, dedicati alla grande nobile, molto apprezzati anche dal Viceré, che riconosce in varie occasioni il talento della fanciulla. Nel 1667, tuttavia, Juana abbandona la Corte ed entra in convento. Da parte degli studiosi si ritiene prevalente in questa scelta una motivazione di ordine pratico, perché imminente un possibile cambio di Viceré. Senonché, Juana, che pur in quel Messico potrebbe, ancorché figlia illeggittima, contrarre, come fanno invero due sue sorelle, matrimonio, lascia scritto che non sente attrazione per tale istituto, ma, anzi, cerca con l’opzione messa in atto la tranquillità necessaria per dedicarsi alla sua intensa attività intellettuale. Sarebbe interessante entrare in molti particolari, quali aspetti del costume e del diritto, specifici allora in quell’area geografica. Ancor più la corposa produzione lirica di Juana, che le assicura subito grande fama. Intenso anche il suo rapporto con una nuova Viceregina. Siamo nel Barocco. Juana si occupa anche di teatro, ma il vescovo, memore dell’avversione pontificia di quegli anni per qualsivoglia forma di coinvolgimento femminile in materia, già da questo presupposto inizia a covare rancore verso Juana. Il fatto é che Juana difende, come può, senza giri di parole e non celandosi dietro pseudonimi, la dignità della donna, soprattutto rivendicando il diritto ad un’istruzione paritetica a quella maschile. Molto significativi, allora, i seguenti versi di Juana: “Stolti uomini che accusate la donna senza ragione, ignari di esser cagione delle colpe che le date; (…) Io molti argomenti fondo contro le vostre arroganze, ché unite in promessa e istanze l’inferno, la carne e il mondo”. Infine, quel vescovo, sfruttando diversi fattori, non ultimo l’ennesimo avvicendamento di governatori, e taluni inevitabili errori della donna, riduce, anche mediante umiliante confessione, Juana al silenzio e alla rinuncia ai suoi amatissimi studi, non senza aver prima espropriato e venduto suoi beni, come biblioteca e strumenti musicali: era stata, infatti, agitata l’accusa di eresia, a quel tempo sul serio temibile. Juana muore di peste il 17 aprile 1695, dopo essersi prodigata per altre consorelle colpite dallo stesso morbo. Mi sembra, infine, molto significativo che Octavio Paz, in “Suor Juana Inés de la Cruz o le insidie della fede”, abbia voluto dedicare la sua meditata attenzione alla figura di questa donna.

Alcune vicende partigiane di fine gennaio 1945 nella I^ Zona Operativa Liguria

Il giorno 23 [gennaio 1945] nella parte occidentale della “I^ Zona Operativa Liguria” avveniva l’uccisione di alcuni partigiani appartenenti al Distaccamento “Folgore” del Battaglione “Secondo”. Infatti la sera del 23 circa cento SS con due mortai circondavano casa Ghersi a Taggia (IM). I quattro garibaldini che si trovavano nell’abitazione vennero immediatamente immobilizzati e torturati. Venne bruciato il fienile di Raffaele Polito. Dopo di che, seguendo una lista fornita da qualcuno, continuarono gli arresti. Sulla strada si trovarono i cadaveri di tre garibaldini (Pistone, Gazzolo e Cichero). Dei partigiani che si trovavano all’interno del casone il solo Luigi Ghersi, pur ferito, riuscì a fuggire, mentre gli altri vennero uccisi.

Nella vicina Sanremo (IM), la notte successiva, vennero fucilati cinque partigiani presso Villa Junia. Quattro di essi portavano il cognome Laura: Gio Batta “Paolo”, Luigi “Gino”, Mario e Silvio Antonio”.

Il giorno 24 venne fucilato anche Renato Giusti (Baffino), che era stato catturato durante il rastrellamento di Terzorio avvenuto tre giorni prima. “Baffino” lavorava nell’organizzazione “Todt” di Porto Maurizio, da cui riuscì a far fuggire diversi patrioti che si diressero in montagna; già scoperto ed incarcerato una volta, ma in seguito liberato dai garibaldini, era stato incorporato nelle formazioni della II^ Divisione.

Dopo tre giorni di relativa calma riprese il veemente rastrellamento ai danni della VI^ Divisione. Il 25 gennaio 1945, all’alba, tre colonne tedesche “provenienti da Borghetto d’Arroscia, Casanova Lerrone e Pieve di Teco giungono a Ubaghetta. La nostra pattuglia avvista il nemico ed apre il fuoco, ma il garibaldino Redaval (Cardoletti Germano) continua impavido a sparare finchè viene colpito da una raffica di mitra e catturato” [L. Massabò “Pantera”, Cronistoria militare della VI^ Divisione “Silvio Bonfante” < diario inedito nel 1999, conservato presso l’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia >]. Redaval verrà fucilato da un plotone d’esecuzione formato dai “Cacciatori degli Appennini”. Dopo tale attacco i nemici si ritirarono sulle posizioni iniziali ed i Distaccamenti “Maccanó” e “De Marchi” poterono sganciarsi. Il 25 gennaio 1945 rappresenta un’altra tragica pagina nella storia della IV^ Brigata “Guarrini”, poiché il X Distaccamento “W. Berio” venne quasi completamente sgominato. Gli undici uomini del X Distaccamento “con a capo Dimitri e Merlo, uno dei più vecchi garibaldini, commissario, si era portato in una località tra Pantasina e Villa Talla, in un fondo valle, presso un ruscello. Il rifugio sembrava sicuro: un muro a secco era stato eretto all’entrata della tana, dove la vita era orribile per il fango e l’umidita”. Una spia (probabilmente la staffetta Toni guidò da Porto i briganti neri al rifugio. Tolgono le pietre e già sorride loro I’idea di un facile eccidio. Peró due colpi secchi di revolver annunciano che il luogo è ormai una tomba sacra… Merlo si è infatti sparato al cuore e Dimitri alle tempie; per non sottostare all’onta della prigionia… le camicie nere infieriscono sui due cadaveri” [da “L’epopea dell’esercito scalzo” (a cura di Mario Mascia) – ed. A.L.I.S.] Gli altri nove garibaldini vennero arrestati e di questi solo due si salvarono dalla fucilazione.

Il giorno successivo riprese il grande rastrellamento ai danni delle formazioni della VI^ Divisione, iniziato sei giorni prima. Verso la sera del 26, infatti, il Distaccamento “Catter” con una marcia di quasi cento chilometri si portò dalla Val Pennavaira alle pendici del monte Torre. Giunti nei pressi della Cappella Soprana di Stellanello (SV), quattro garibaldini si accantonarono in un da cui avvistarono una colonna di “Monte Rosa”. “Il commissario Gapon (Renzo Scotto), il capo squadra Bruno (Bruno Amoretti), i garibaldini Marat e Franco (Dante Del Polito) combatterono eroicamente, uccidendo il tenente comandante del pattuglione, un sottoufficiale e quattro soldati. Il nemico rimane disorientato e facilita lo sganciamento dei garibaldini” [L. Massabò “Pantera”, op. cit.]. Tra cui “Marat” (Arbotti, od Ortelli, Renzo, che era nato nel 1920 a Reggio Emilia), che dopo pochi metri morirà per le ferite riportate nello scontro.

Anche il giorno 27 fu segnato da vasti rastrellamenti nemici, in particolare da formazioni della “Muti” e della “Monte Rosa”, che batterono la zona di Ginestro [Frazione di Testico in provincia di Savona]. Alle 7 del mattino “la pattuglia a fondo valle comunica che il nemico si avvicina alla nostra zona… le squadre vengono disposte in ordine di combattimento. Il garibaldino Brescia (Longhi Mario) allo scoperto, con il suo inseparabile M.G., apriva il fuoco contro il nemico avanzante. Una raffica avversaria gli asportava l’arma dalle mani… veniva colpito mortalmente alla testa” [L. Massabò “Pantera”, op. cit.]. Durante lo stesso combattimento periva, altresì, il garibaldino “Romano” (Paloni Silvio). Le due squadre del Distaccamento “Garbagnati” riuscirono ad aprirsi la strada per la fuga perdendo un ta-pum ed una macchina da scrivere.

Il 28 gennaio le truppe addette ai rastrellamenti abbandonarono le valli presidiate nei giorni precedenti (Pennavaira, Arroscia e Lerrone) ad eccezione della valle di Andora che sarà abbandonata il giorno successivo. Unico grande presidio della zona rimarrà quello di Borgo di Ranzo che ospiterà circa centoventi soldati delle “Brigate Nere”.

Cessato il pericolo costituito dai rastrellamenti dei giorni precedenti, il Comando divisionale della “Bonfante” dispose lo spostamento nella valle d’Arroscia (parte nord) del Comando della III^ Brigata e della sua Intendenza, mentre il Distaccamento Maccanò si spostava nella zona di Aurigo ed il Distaccamento De Marchi nella Val Pennavaira.

Resasi momentaneamente meno pericolosa la lotta per gli uomini della “Bonfante”, il 31 gennaio rappresentò, di contro, l’ennesima pagina nera per la IV^ Brigata della “Cascione”. Come ricorda Gino Gerini (Gino), il 30 gennaio “giungemmo, al crepuscolo, in regione Ni-Cuni, tra Tavole e Val Prino. Scoprimmo un casone isolato fra i castagni e decidemmo di passarvi la notte“. I garibaldini avevano in progetto la cattura di tre pericolose spie di Vasia. Così Gino “dispose che “Deri, Livio e Cristo prelevassero le spie. Nello stesso tempo io, Lupo e Battista, l’amministratore della Brigata, partimmo per Tavole per ritirare importanti documenti e rientrammo in base verso mezzanotte, accompagnati da Timoscenko che aveva effettuato una visita a casa“. Il mattino del 31 gennaio due colonne tedesche circondarono il casone in cui si trovavano i garibaldini. A “Gino” non rimase altro che ordinare la fuga. Tuttavia “due giorni dopo all’uscita del paese di Villa Talla, mentre attraversavamo il ponte, scorgemmo in distanza una folla. Ci avvicinammo: sette bare sfilavano innanzi a noi“. Tra i deceduti vi erano “Battista” (Manfredo Raviola), “Timoscenko” (Tommaso Ricci), “Cristo” (Bartolomeo Dulbecco), che morirono nel vallone di Villa Talla ed altri tre, “Matteo” (Matteo Zanoni), “Insalata” e “Leone”, che furono prima torturati e poi fucilati.

“Lupo” e “Veloce” il 4 febbraio 1945 segnalarono la grave situazione in cui si trovava la IV^ Brigata, precisando che il I° Battaglione constava di 65 uomini, il II° di 70 ed il IlI° di 90.

L’ultimo giorno di gennaio al tragico episodio di Villatalla si aggiunse un altro dramma. Per vendicare la scomparsa di due soldati tedeschi avvenuta l’8 gennaio “lungo il tratto di strada Castelvecchio-Pontedassio… non essendo ritornati ed avendo avuto comunicazione che i due soldati furono bestialmente uccisi, sono apparsi davanti al tribunale militare germanico” 20 partigiani catturati in Val Prino o prelevati nelle carceri d’Oneglia, di cui 11, arrestati il 9 gennaio (Stenca, De Marchi, Manodi, Ansaldo, Garelli, Bosco, Bertelli, Cipolla, Ardigò, Noschese e Delle Piane), che verranno fucilati lungo la salita di Capo Berta. Le SAP (Squadre d’Azione Patriottica) di lmperia avevano già dieci giorni prima richiesto alle formazioni di montagna la cattura di alcuni gerarchi fascisti ed ufficiali tedeschi per poterli scambiare con alcuni degli uomini che saranno uccisi il giorno 31. Gli altri 9 patrioti processati dal tribunale tedesco (Varalla, Favale, Garletti, Guarreschi, De Lauro, Deri, Brancaleone, Giordano e Cavallero) saranno fucilati il 9 febbraio dietro il cimitero di Oneglia.

Responsabile di questo eccidio e di altri che si verificheranno dal gennaio 1945 alla fine della guerra fu una donna la cui identità rimase a lungo celata tanto che fu conosciuta con lo pseudonimo di “donna velata”. Per l’importanza che questa spia ricoprì nelle vicende della “I^ Zona Operativa Liguria” risulta necessario tracciare un sunto…

tratto, p.g.c. dell’autore, Rocco Fava di Sanremo (IM), da “La Resistenza nell’Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell’Istituto Storico della Resistenza e della Storia Contemporanea di Imperia (1 gennaio – 30 Aprile 1945)” – Tomo I – Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Facoltà di Scienze della Formazione, Corso di Laurea in Pedagogia – Anno Accademico 1998 – 1999

La poesia del beà.

Il tramonto ci invitava verso casa. La nonna raggruppava parte del raccolto e quello che non stava sulla carriola del nonno finiva in due canestri. Erano i regali quotidiani del Prau [nel territorio di Camporosso (IM)]. Un fascio profumato di erbe e scarti di verdure dell’orto, che finiva in un telo. Fatto con due sacchi cuciti insieme con quattro lacci ai lati, si chiamava “lensurun”, un lenzuolo povero e disprezzato. Conteneva la cena per conigli e galline.

Poi la nonna, con un fazzoletto dai colori di un prato sbiadito, fazzoletto che girava attorno alle mani, costruiva un piccolo cerchio, simile ad un nido che finiva sulla sua testa. Serviva da ammortizzatore al peso di quello che sembrava un grande ombrello rovesciato. Quando era ben posizionato sul suo capo, il nonno caricava il “lensurun.” La nonna con i due canestri, uno per mano per l’equilibrio, sembrava un‘acrobata. Il percorso non era facile: occorreva superare il bedale rialzato. Ad un lato del sentiero scendeva veloce alle fasce sottostanti un’acqua trasparente. Le gambe strofinavano, salendo, menta acquatica e nepeta, che esalavano i profumi della fine del giorno. A noi nulla davano da portare, sapendo che avremmo perduto il carico per strada, mentre raccoglievamo piccoli maggiolini verde-blu. Insetti dal colore delle opali, piccoli gioielli. Povera nonna carica come un somaro, che giunta a casa doveva ancora lavare, tagliare, cuocere la fatica dell’orto! Quanti soli di tarassaco, violette, selene, abbiamo reciso, noi bambine per farle naufragare nel nostro mare. Un rigagnolo nel verde, percorso dall’acqua a giorni prestabiliti. Quanti concerti con improvvisati flauti di germogli di canne riempivano i pomeriggi!

La nostra merenda vicino ad una baracca di canne era un banchetto. Per il nonno e per noi aveva il sapore di una liturgia. Mentre l’acqua scivolava nei solchi e abbeverava tutte le verdure si poteva fare una sosta. Sempre con un occhio vigile all’acqua che facesse il giro giusto. Non dimenticando nessuno degli assetati. Estraeva il suo coltellino a scatto, quello per fare gli innesti con la punta curva. Lo puliva sulle braghe di fustagno e tagliava i pomodori da mettere sul pane. Una fiaschetta di olio, il sale estratto da un fazzoletto, che aveva visto tempi migliori, e poi l’operazione magica che riduceva il cetriolo in quattro perfette strisce, lasciando i semi intatti. Ne ricordo il colore, il gusto ed il rumore sotto i denti. Continuo a tagliare ancora il cetriolo in quattro per vedere luccicare i semi, per ricordare quei momenti magici.

Questi i ricordi di noi bambine, quando in estate, libere dalla scuola, seguivamo i nonni nel loro grande orto. Percorrevamo una strada dai bordi fioriti, che seguiva prati a fieno e campagne curate come le stanze di casa. Tutto serviva alla sopravvivenza. Libere di correre e giocare, ma guai a rovinare i canaletti o “surchi“, strade che il nonno tracciava all’acqua: le piante dovevano bere tutte! Quella terra non lontana dal torrente era di consistenza sabbiosa. Un passo falso e quello sbarramento disegnato con cura dal nonno crollava. Seguivano le terribili minacce di cacciata dall’eden.

di Gridellino